Si è aperta con il film di
Alejandro Gonzales Inarritu la 71' Mostra del Cinema di Venezia. Si
parla già di candidature all'Oscar.
Cosa fa di un film un bel film?
Per molti la capacità tecnica di
lunghi piani sequenza, per altri gli effetti speciali, la
recitazione, la fotografia, la storia, i costumi, le ambientazioni.
Per molti, un film deve avere la forza
e la magia di spiegare l'essenza della vita, quella che ci attraversa
dentro, come “Birdman”, il film che ha aperto la 71' Mostra del
Cinema di Venezia.
E' tecnicamente ben fatto, con lunghi
efficaci piani sequenza e perfettamente recitato da un cast
impeccabile, ma la sua forza è quella di raggiungerti con la
violenza di una scudisciata: una storia angosciante e divertente nel
contempo, con passaggi continui tra realtà e surrealtà, grottesca,
drammatica e poetica.
Alejandro Gonzales Inarritu, il regista
messicano al suo sesto (bel) film, ha voluto raccontare la storia di
una vecchia celebrità che, caduta nell'oblio, cerca un riscatto nel
teatro misurandosi con la sua mancanza di talento.
Il vago parallelismo tra la storia di
Riggan Thomson, il protagonista reso famoso dal fantastico
personaggio piumato”Birdman”, e Michael Keaton, che fu il celebre
“Batman, rende seducente la lettura ma inopportuno ogni
accostamento con questo grande artista, che ha vissuto serenamente e
che ha interpretato con la profondità necessaria il dramma di un
fallimento.
Il regista ha voluto cogliere e
raccontare l'attimo di vita di un uomo in cui muore il futuro, quindi
anche i suoi desideri: la consapevolezza dei propri limiti e
l'incapacità ad accettarli; l'asfissia a cui ti condanna la gabbia
del successo costruito sulla celebrità, e non sul talento,
esattamente come il ridondante mondo dei social network, per cui puoi
esistere solo per il crudele senso del ridicolo.
Proprio come un grande uccello piumato
che batte incessantemente contro una finestra chiusa, il protagonista
combatte inutilmente contro un mondo che non lo tirerà fuori dal suo
personaggio insulso. La sua realtà ben s'intreccia con il breve
racconto dolente di Raymond Carver “ Di cosa parliamo quando
parliamo d'amore”, e la
finzione teatrale diventa il percorso illuminato nei tortuosi
corridoi bui dell'animo del protagonista.
Ma il film fa luce
su molti di noi. Su un comprimario grottesco e crudele, ma
soprattutto irrisolto ( Edward Norton), su due attrici coprotagoniste
che, seppur impeccabili sulla scena, non hanno saputo governare la
propria vita ( Naomi Watts e Andrea Rsiborough); su una figlia
infelice e tossicodipendente, incapace di guardare la vita oltre il
suo dramma interiore; sul ruolo dell'amico produttore, abbastanza
affettuoso e cinico, come le due anime richiedono.
E fa ancora
spietatamente luce, sul mondo della critica, animato da guardoni
affamati di insuccessi, e sul mondo virtuale del social network,
unico ambito deputato a certificare l'esistenza di un cristiano.
E' un film sano,
perché contiene in sé ogni elemento necessario a riflettere. Per
ognuno di noi.
E' scomodo, come
una poltrona poco accogliente. Feroce, come uno specchio che rimanda,
inesorabilmente, ogni dettaglio pietoso dell'immagine.
Ma è poetico,
perché racconta la fragilità che non sa abbandonarsi
all'indifferenza. Descrive l'infrangersi delle emozioni che si
schiantano sugli scogli della vita generando il devastante,
imperscrutabile fenomeno della solitudine.
Bravissimo
Inarritu, per aver fatto questo film.
Bravissimo Alberto
Barbera per averlo scelto come film di apertura di questa mostra che
si annuncia magnifica.