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antonella.frontani@gmail.com
Vice Presidente di Film Commission Torino Piemonte - Collaboratore in Staff Assessorato Attività Produttive, Commercio, Lavoro Città di Torino

La vera saggezza sta in colui che sa di non sapere

Nel corso del tempo il lavoro mi ha insegnato che sono infinite le cose che non sappiamo. Da lì, il mio impegno per l'informazione e la divulgazione è diventato "passione".


martedì 20 dicembre 2011

NUTRIAID PER LA SOMALIA



Il dr. Costanzo Bellando, il prof. Piero Abruzzese e il Prof. Daniele Regge uniti da un progetto per la Somalia.
Testimonial Cristina Chiabotto, che racconta la sua esperienza inmadagascar

mercoledì 14 dicembre 2011

FIDELIO, UN’OPERA INCOMPRESA






L’ unica opera lirica scritta da Beethoven apre la stagione 2011- 2012 del Teatro Regio.


“Il mio vero elemento è la sinfonia. Quando un’eco mi risuona nell’anima sento sempre in piena orchestra. Dagli strumenti posso pretendere tutto ciò che voglio, nelle composizioni per canto devo sempre chiedere prima : “si può cantare?”
Erano le parole del Maestro Beethoven, che non cercava di nascondere la sua scarsa inclinazione per il teatro e la predilezione assoluta per il repertorio strumentale.
Del resto, era cresciuto in tutt’altro contesto, rispetto al suo illustre predecessore, Wolfang Amadeus Mozart. Si era affermato in una città come Vienna che rappresentava il regno dell’arte strumentale. Non viaggiò tanto quanto Mozart, che restò segnato dal pensiero drammaturgico italiano, e finì per conoscere poco il melodramma settecentesco.
Ludwig van Beethoven scrisse, così, un’unica opera lirica, dalla stesura estremamente travagliata ( solo l’Ouverture avrà ben 4 versioni) : Fidelio.
Venerdì 9 dicembre al Teatro Regio di Torino l’opera ha aperto la stagione 2011- 2012 , diretta da Gianandrea Noseda, con la regia di Mario Martone e le scene di Sergio Tramonti.
Fidelio narra una storia vera accaduta nella Francia del XVII secolo, a Tours, in una società dominata dal terrore.. Léonore, la protagonista, si reca nel carcere in cui è stato imprigionato Florestan, l’uomo che ama, arrestato e torturato dal feroce governatore Don Pizarro. Ricorrerà all’inganno presentandosi travestita da uomo e sotto falso nome, Fidelio. Riuscirà nel suo intento e salverà Florestan rendendolo di nuovo un uomo libero.
L’opera ruota attorno a due temi in stretta relazione tra loro: il bisogno di libertà che domina la vita di ogni uomo, e l’amore coniugale, sodalizio necessario a difendere il diritto stesso di libertà. La vittoria dell’amore sulla tirannia, dunque. L’esaltazione della libertà contro ogni catena che imprigioni un essere umano. Un’opera simbolo, che ben rappresenta il pensiero di Beethoven; quella forte passione politica del Maestro che sfocerà più tardi in un’autentica esplosione: l’Inno alla Gioia della Nona sinfonia.
Per alcuni, si tratta di un’opera difficile all’ascolto, troppo lunga e poco melodica. Hector Berlioz , invece, nelle sue memorie scrisse “di aver raramente provato un godimento musicale così completo”.
Personalmente ( per quanto possa contare il giudizio di un’appassionata ascoltatrice di mediocre preparazione), le 56 battute che raccontano la liberazione di Florestan rappresentano un momento musicale toccante , quando la melodia di ampio respiro dell’oboe conduce Léonore a pronunciare”O Dio, quale istante!”.
La terza stesura della celebre ouverture Léonore n. 3, invece, continua ad essere una delle pagine strumentali più eseguite di tutto il repertorio sinfonico. Purtroppo, non nella versione scelta dal Teatro Regio, ossia quella definitiva del 1814.
La direzione di Noseda è stata un autentico successo.
Il suo gesto vigoroso e preciso ha cesellato l’Ouverture, mentre, la sua saggezza musicale ha preferito operare il taglio della suddetta Lèonore n. 3, il cui peso sinfonico richiede una sede concertistica.
La regia di Martone e le scene di Sergio Tramonti riproducono il perfetto clima claustrofobico del carcere che ricorda il gioco di luce e buio del recente film “Noi credevamo”, e come nella pellicola, emerge lo stesso groviglio di ambiguità e fallimenti che impedisce un percorso lineare verso gli ideali di libertà e giustizia. Un allestimento splendido ed efficace nelle sue intenzioni. Un contributo decisivo sicuramente è dato dai costumi ideati da Ursula Patzak.
Léonore, la protagonista , è interpretata da una grande cantante, il cui talento è riconosciuto in tutta Europa: il soprano Ritarda Merberth, wagneriana dotata di una voce di splendido colore. Bravissima, in questa prova
Lucio Gallo nel ruolo di Don Pizarro è perfetto. Baritono di grande caratura.
Il Teatro Regio mette a segno un altro successo.

lunedì 12 dicembre 2011

giovedì 8 dicembre 2011

ARTEMISIA GENTILESCHI - LA FURIA E LA PASSIONE







Al palazzo Reale di Milano l’esposizione delle opere di Artemisia Gentileschi fino al 29 gennaio 2012. Un riconoscimento al talento di una grande artista ignorata per tre secoli.

Inizia con uno stupro in giovane età la vita di successi e tormenti di Artemisia Gentileschi.
Era il maggio del 1611 quando, Agostino Tassi, amico del padre Orazio, la violentò segnando per sempre il suo destino di donna forte e ferita, vero emblema storico per le generazioni che verranno, simbolo assoluto del femminismo internazionale.
Quel tragico episodio divenne segno indelebile nella produzione artistica di questa donna affascinante e tormentata. Giuditta decapita Oloferne è il dipinto che apre la mostra, sottolineando il desiderio di rivalsa della giovinetta nei confronti del mondo maschile violento e burrascoso.
La forte influenza che il Caravaggio esercitò sulla produzione artistica di Artemisia, emerge con violenza in questa opera che, in un gioco di luci intense e ombre impenetrabili, sottolinea la violenza di un sentimento di vendetta non sopito.
La scena evoca l’episodio dell’antico Testamento in cui Giuditta, vedova ebrea, si reca sul campo nemico in cerca del condottiero assiro Oloferne, per circuirlo e ucciderlo con una brutale decapitazione.
La scelta appropriata di aprire l’esposizione con la tela dipinta tra il 1612 ed il 1613 getta, in un baleno, il visitatore nel gorgo del talento indiscusso di questa grande artista : l’incarnato luminoso delle due donne, la piega viva di un lenzuolo insanguinato e le grinze perfette delle vesti dai colori sgargianti, ne esaltano la magnifica tecnica pittorica, carica di rigore e tratto drammatico.
La mostra espone oltre 40 tele che ben rappresentano il suo cammino tra Firenze, Roma e Napoli, e 5 tra le più belle lettere d’amore scritte da Artemisia e Francesco Maria Maringhi, suo ardente amante.
La sensualità è un altro importante tratto che emerge dalle sue tele brucianti. La Conversione della Maddalena, quadro realizzato tra il 1615 ed il 1616, è un’opera che, sotto questo aspetto, ben si presta ad un confronto diretto con la pittura di Caravaggio. La Maddalena del celebre, burrascoso artista, conservata nella Galleria Doria Pamphilj, propone la visione ardita di una bella prostituta con lo sguardo abbassato, adagiata su una sedia modesta, spogliata dei gioielli abbandonati sul pavimento nudo.
La Maddalena convertita di Artemisia ha un aspetto avvenente, ma elegante; il suo sguardo è carico di lacrime e volto al cielo;
un’ampia scollatura, appena sfiorata da lunghi capelli biondi, le dona un aspetto sensuale, ma la sua veste è di una foggia preziosa, confezionata con la seta che domina nel celebre “ guardaroba Gentileschi”.
La complicità tra donne, è un altro tema che ricorre nelle opere di Artemisia.
In Giuditta e la fantesca la pittrice enfatizza la complicità psicologica delle due donne che chiude nello stesso spazio, unendo i loro corpi a specchio e gettando i loro sguardi nella stessa direzione. La stretta vigorosa della mano di Giuditta sull’elsa della spada, e il gesto protettivo della serva che nasconde la testa mozzata del nemico, amplifica il senso di complicità di unisce le due donne. Sembra essere sparita anche la distanza di classe che emergeva dal loro sguardo nella tela della decapitazione.
Qui l’influenza di Caravaggio su Artemisia è totale.
La mostra si chiude con una seconda rappresentazione di Giuditta decapita Oloferne, realizzata nel 1620 e conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze. A differenza della prima realizzazione, che apre l’esposizione ed è conservata al Museo Capodimonte di Napoli, la scena ha tratti pittorici più maturi e, se possibile, più inquietanti.
Tre secoli sono dovuti passare per riconoscere il grande talento artistico di Artemisia. La sua capacità di emergere in un mondo che non contemplava l’affermazione femminile, l’ha trasformata in una delle poche protagoniste dell’arte europea, ma la sua vicenda personale l’ha trasformata nella protagonista ideale di un romanzo, oscurando i suoi meriti professionali.

Questa mostra le rende merito. Finalmente.

venerdì 2 dicembre 2011

TWIXT: FINALE A SORPRESA


TWIXT : FINALE A SORPRESA

Proiettata a Torino l’anteprima mondiale del film di Francis Ford Coppola

E’ stato un finale a sorpresa, quello del 29° Torino Film Festival che in chiusura prevedeva solo la proiezione del film “Albert Nobbs” di Rodrigo Garcia. Al ricchissimo programma è giunta, inaspettatamente, l’anteprima del film di Francis Ford Coppola ,“Twixt”.
Gran colpo della rodata macchina sabauda che ha avuto la meglio, rispetto a molti festival internazionali che si sono contesi la pellicola, tra cui Cannes e Venezia.
Coppola torna a raccontare una storia di vampiri, in cui finisce uno sconosciuto scrittore di horror. Ambientato nella sperduta periferia americana, la vicenda di bimbi, killer e vampiri si alterna alla storia di dolore che ha colpito lo sfortunato scrittore nel passato : la morte di sua figlia.
Lume sul buio tracciato della verità, lo scrittore Edgar Allan Poe che, sopraggiungendogli in sogno lo aiuterà a scoprire il mistero della morte di un’adolescente, a metabolizzare il senso di colpa per la morte della figlia e a raggiungere l’insperato successo editoriale.
Il parallelo tra il senso di disperazione che colse il grande scrittore dell’Ottocento per la morte della sua amata, giovanissima moglie, Virginia Clemm e la morte della ragazzina che guiderà lo scrittore fallito e alcolizzato verso la soluzione del suo oscuro orizzonte, non sembra risolvere il film nella trama più avvincente.
Inevitabile il parallelo tra “Twixy” e “Dracula di Bram Stoker”, in cui Coppola dà una struttura epica, luciferina e romantica del personaggio.
Probabilmente aiutato dall’ingente finanziamento di 40 milioni di dollari elargito dalla Columbia Tristar, o favorito dalla sceneggiatura di James Hart che ha attinto da “The Annotated Dracula di Leonard Wolf, Coppola confezionò, con il suo Dracula, un film che vinse tre Oscar.
Con una serie di invenzioni narrative, tecniche, cromatiche e figurative fece una puntigliosa, affascinante, ricostruzione della Londra vittoriana del 1897. Il film pullulava di riferimenti al romanticismo e al simbolismo pittorico dell’Ottocento; accattivanti riferimenti alla grafica del fumetto graffiavano le scene e numerose, diaboliche metamorfosi del protagonista, Gary Oldman, le sconvolgevano.
Forse un eccesso di stili, ma un grande film.
Twixt non lascia il segno. Girato in parte a colori e in parte in bianco e nero, sia in 2D che in 3D ( solo per un paio di scene), la trama langue in una storia un po’ scontata. Girato con la maestria che condraddistingue il lavoro del Maestro, e sostenuto dalla buona recitazione della scuola americana ( anche se il protagonista meglio calza la figura dell’alcolista fallito, piuttosto che quella dello scrittore tormentato), il film non decolla, e neppure l’attenzione degli spettatori. Peccato.

giovedì 1 dicembre 2011



Antropos va in onda il giovedì alle 22.3o su Quartaretetv, in diretta streaming al sito www.quartarete.tv, in replica il sabato alle 23.15 su Quartarete tv e su Sky - Canae 950 il mercoledì alle 12 .
Anto indossa abiti di Fabrizio Lenzi, gentilmente offerti da "Laloggia", Via Bertola9, Torino e i Bijuox del Gatto, Via Bertola 6, Torino

domenica 27 novembre 2011

VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN



E’ stato un viaggio fantastico quello dentro la mostra allestita nel Palazzo Ducale a Genova. Ottanta capolavori provenienti da tutto il mondo.
E’ stato come seguire Eugène-Henri-Paul Gauguin nella sua vita vagabonda che lo porta da Marsiglia a Tahiti, attraverso la lettura della sua somma opera “Da dove veniamo? Cosa siamo?Dove andiamo?”.
E’ stato come affiancare Vincent Van Gogh nel tortuoso percorso della sua vita interiore, complessa e tragicamente umana.
Quaranta sue splendide opere per definire una delle più curate “personali” sull’artista; la raccolta delle sue lettere originali per raccontare la sua vita, i suoi tormenti, gli sprazi di luce che illuminano la sua mente, generosamente proiettate sulle pareti che affiancano le opere, nell’intento di descrivere con pienezza lo stato d’animo che muoveva il suo pennello.
L’elemento che ha fortemente connotato l’esperienza di Gauguin e Va Gogh fu la convinzione comune di annunciare , con la propria opera, una nuova via d’espressione. Entrambi fondarono la loro arte sul colore, evocativo dei sentimenti in Gauguin, e necessario a Van Gogh per esprimere l’inquietudine interiore che tormentava la sua labile psiche.
Le prime opere di Van Gogh esposte nella mostra riguardano il periodo precedente al suo soggiorno parigino ( 1886 -1888 ) durante il quale nella cittadina di Neunen , nel Brabante olandese, ritrasse luoghi e abitanti della zona, soprattutto contadini e tessitori. Con questo grande artista si consuma l’ultimo definitivo strappo con l’arte impressionista , poiché non si limita più a rappresentare la realtà apparente, ma si sforza di esprimere l’esperienza emozionale e spirituale che prova davanti al mondo, rifiutando qualunque convenzionalità o abbellimento. Un periodo artistico fortemente suggestionato dalla pittura francese legata ai temi sociali di Millet e Draumier; i colori dorati della terra accostano la sua produzione artistica a quella fiamminga.
Il suo arrivo a Parigi, dove raggiunge il fratello Theo a cui sono dedicate il maggior numero di lettere, comporterà un radicale cambiamento cromatico e formale.
Il viaggio insieme a Van Gogh continua, dunque, illuminato dalla luce del sud dove la sua tavolozza si schiarisce , mentre l’uso della spatola viene progressivamente sostituito a una pennellata che si fa violenta e spezzata.
Entusiasta dei paesaggi luminosi e dei colori forti del mezzogiorno, narra la sua gioia in lunghe lettere indirizzate al fratello e alla madre, in cui racconta il suo stupore di fronte alla natura, che riuscirà a trasferire nei suoi quadri. Convince Gauguin, di cui apprezza moltissimo l’opera, a raggiungerlo. Dopo poco, però, i rapporti tra i due artisti si incrinano tragicamente, forse peggiorati dalle crisi nervose che colpiscono Van Gogh sempre più frequentemente.
Le sue opere, in questo tratto di mostra, sembrano indicare ad ognuno di noi, il percorso che l’anima deve seguire per illuminare i propri tormenti. E’ entusiasmante.
La parte finale della sua “personale”, approda nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy dove decide di farsi internare. Conscio della sua malattia, sembra accettare le sorti di quell’isolamento, trovando la fuga nella pittura che ruba scorci di giardino, e vedute del cielo che sembrano superare il recinto di quel paradiso forzato.
L’ultima opera del viaggio è quella del suo autoritratto, dove il viso scavato di un uomo vinto dalla vita, riesce a riprodurre fedelmente ogni solco che segna i suoi tormenti.
Le ultime opere esposte, sono quelle del periodo successivo il manicomio durante il quale, tra crisi e stati di lucidità, dipinge un numero elevatissimo di opere. Rifugiato presso il dottor Gachet, amico di Cézanne e Pissarro, dipinge l’ultima parte del suo viaggio e, per questo, la tavolozza cromatica trasuda efficaci effetti di colori espressivi: il suo animo tormentato. Muore suicida in uno dei campi che tanto ha amato, dopo aver scritto l’ultima, fondamentale lettera al fratello Theo.
La citata opera di Gauguin, invece, rappresenta una metafora della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, ma anche una meditazione sul suo senso, un confronto tra la natura e la ragione, rappresentata dalle due donne in atteggiamento pensoso.
Il confronto più sorprendente di fronte al quale ci pone il curatore della mostra, Marco Golden, è quello tra l’artista statunitense Mark Rothko, spesso definito “espressionista astratto”vissuto nella prima metà del Novecento, e Joseph Mallord William Turner, la cui produzione artistica risale a cento anni prima.
E’ incredibile come quest’ultimo riuscì ad esprimere quel senso del sublime e di spiritualità del colore che nella prima metà dell’Ottocento sembrava un linguaggio ignoto. L’affiancamento delle tele dei due artisti mostra due paesaggi con vedute intime nascoste ed infinite, dove la pittura sembra indagare una realtà ulteriore, e mostrare l’invisibile.
Il viaggio all’interno della mostra passa attraverso opere di Monet e Hopper, fino a Kandinsky, lasciando ad ognuno la possibilità di ritrovarsi.
La musica, accuratamente scelta per essere appropriata ad ogni passaggio, facilita il cammino.
Ne vale davvero la pena. Fino al 15 aprile 2012.

mercoledì 9 novembre 2011

lunedì 24 ottobre 2011

E' iniziata la nuova stagione di ANTROPOS



E' iniziata la nuova stagione di ANTROPOS condotta da Anto. La trasmissione va in onda il giovedì alle 22.30 su Quartarete tv e in diretta streaming al sito www.qiuartarete.tv - Le repliche sono previste il sabato alle 23.15 su Quartarete tv e il mercoledì alle 12.00 su Sky - Canale 950 -

venerdì 14 ottobre 2011

mercoledì 5 ottobre 2011

IL RUOLO DELLE BANCHE NELLA GRANDE CRISI




Borse a picco, sistema bancario troppo fragile, paura per l’effetto domino. Era possibile prevedere tutto questo?


Sta accadendo di tutto: le borse barcollano paurosamente mentre lo “spread” sembra una scheggia impazzita che la Bce, a fatica, mantiene in bilico sul baratro del “400”.
L’economia occidentale suda, nel disperato tentativo di evitare il “default” di paesi come la Grecia ( e, probabilmente a seguire, dell’Italia), mentre l’euro impallidisce di fronte al dollaro.
Quando potremo parlare ancora di “crescita”?
Impossibile per ora, soprattutto in vista della crisi bancaria internazionale che subentrerà in seguito all’inevitabile crollo della Grecia, e tenuto conto dell’insopportabile peso che il nostro debito pubblico infligge all’Europa.
I giornali parlano di un sistema bancario troppo fragile e dell’alto rischio di un crollo ad effetto domino
Ma che vuol dire “crisi bancaria”? Qual è il ruolo delle banche in questo terremoto? E come funziona il loro sistema di regolamentazione ?
Il ruolo dell’informazione, ovviamente, non può essere quello di sostituirsi ai grandi tecnici nel fornire spiegazioni ma, certamente, di lottare per ottenerle e divulgarle.
A tale scopo, organizzo le mie idee ( confuse ) in vista di una prossima puntata di Antropos ( la trasmissione che conduco su Quartarete tv), in cui avrò la fortuna di Ospitare l’Onorevole Nerio Nesi, già Presidente della Banca Nazionale del Lavoro, in merito al ruolo delle banche, e alla loro regolamentazione nel corso della crisi finanziaria che stiamo vivendo.
Il percorso di pensiero si illuminò leggendo il primo saggio scritto da Tommaso Padoa – Schioppa sulle radici più profonde della crisi finanziaria, pubblicato su “International Finance” nel 2008.
L’analisi della crisi si fonda su tre punti: lo squilibrio dei conti con l’estero degli Stati Uniti, lo scoppio della bolla immobiliare e il panico collettivo che si è diffuso nei mercati.
Tre aspetti distinti e tra loro collegati che inducono ad una precisa domanda: la crisi è la correzione di un percorso sbagliato, o la deviazione da un percorso corretto?
La risposta del Professore era, già allora, propensa ad una correzione fondamentale nel tracciato economico.
Secondo Padoa – Schioppa, si trattava di intervenire in tre aspetti fondamentali che fino ad allora avevano influenzato il mercato: il ridimensionamento del fondamentalismo di mercato, che giudicava ogni intervento pubblico come nocivo e che ha comportato, ormai, un’eccessiva intrusione governativa nelle scelte private; del nazionalismo, che ha voluto dare risposte pubbliche nazionali a mercati che vivono in una dimensione europea e globale; dell’ottica di breve periodo, che ha portato ad un modello di crescita senza risparmi.
Ciò premesso, nel 2007 il Professore, che allora rivestiva l’incarico di Ministro dell’Economia e delle Finanze, con ammirevole lungimiranza, sosteneva l’immediata necessità di integrare le funzioni di regolamentazione e vigilanza finanziaria a livello europeo, al fine di scoraggiare il tentativo delle autorità di molti paesi , di allentare le maglie della vigilanza per favorire le piazze e le istituzioni finanziarie nazionali.
La sua proposta era quella di istituire regole veramente uniformi , senza lasciare alcun spazio di arbitraggio e a una vigilanza integrata a livello europeo dei gruppi transfrontalieri.
Una proposta che venne ascoltata con grande attenzione, durante la riunione di Consiglio ECOFIN nel dicembre 2007, per il rispetto che la competenza del Professore imponeva, ma che venne sciaguratamente ignorata a favore di un’interpretazione di breve respiro di interesse nazionale.
Era un convinto europeista, Tommaso Padoa. Schioppa, e sosteneva che la scelta corretta fosse l’abbandono del controllo nazionale della politica monetaria interna, in favore di una politica monetaria europea. Nel 1998 divenne uno dei padri fondatori della Banca Centrale Europea ( BCE) , e il suo principale obiettivo professionale fu la creazione di una moneta europea e di un sistema europeo di banche centrali ( SEBC) .
La sua consapevolezza era che con l’unione monetaria, il rischio sistematico assumesse una dimensione europea e richiedeva cambiamenti istituzionali più radicali e politiche più coraggiose.
Oggi, con un certo ritardo, è sorto un Sistema europeo di vigilanza finanziaria che, seppur ancora fragile, è dotato di significativi poteri, e se sarà possibile effettuare il coordinamento delle politiche perseguite a livello nazionale, la previsione di Padoa – Schioppa troverà realizzazione.
Attendo con impazienza l’appuntamento con l’Onorevole Nesi anche per chiedergli : “ Avremmo dovuto ascoltare con più attenzione l’analisi del Professore?”.

domenica 2 ottobre 2011

APOCALISSE INTERIORE UN BARATRO DA GUARDARE




Era immaginabile che il Teatro Carignano fosse gremito, visto che parlava Umberto Galimberti.
Torino Spiritualità 2011, nel corso della sua settima edizione, ha ottenuto un altro grande successo invitando il Professore a parlare di “Apocalisse interiore”.
La definizione ha colpito con violenza l’attenzione di una platea che aspettava impaziente la lettura del nostro tempo, analizzata con la precisione e la chiarezza che contraddistinguono il pensiero di Umberto Galimberti.
La lezione è iniziata dall’approfondimento di tematiche inerenti il rapporto tra uomo e tempo, e dall’inevitabile riferimento alle teorie di Martin Heidegger, che l’aveva ampiamente trattate.
La visione tragica del mondo greco nasceva dalla consapevolezza che l’uomo fosse mortale, dunque, legato come gli animali e le piante al ciclo naturale.
Non si trattava di una lettura “angosciante” della tragedia, ma di una serena accettazione del ciclo che vede l’uomo nascere, vivere e morire in un’esistenza in cui il soggetto non era l’uomo ma la natura e, dopo la quale, non esisteva più nulla.
L’uomo , dunque, per i greci, aveva bisogno di un senso per vivere, visto che la morte è l’implosione di ogni senso.
“Gente seria, i Greci” dice Galimberti.
Friedrich Nietzsche sosteneva che l’umanità non sarebbe sopravvissuta a quella consapevolezza, se non fosse subentrato un “Essere superiore” in grado di promettere all’uomo la vita oltre la morte : Dio.
Il Cristianesimo, così, offre ai terreni la possibilità della Resurrezione del corpo generando una carica ottimistica che diventa la configurazione tipica del nostro tempo.
“Colpo di genio, quello dei Cristiani”, sostiene ancora il Professore.
Il tempo, per l’uomo, non è più il ciclico avvicendarsi delle stagioni , ma diventa un disegno che costruisce la storia in vista della salvezza . Il dolore non è più parte integrante della natura, secondo la visione greca, ma acquista un duplice valore : l’espiazione della colpa e la conquista dell’eternità.
L’avvento della scienza durante l’Umanesimo che sopraggiunge, mette in discussione la fede e la lettura ottimistica a cui l’uomo si era abituato. Le conseguenze del peccato originale avevano imposto all’uomo la fatica del lavoro ed il bisogno di ottenere il perdono; la scienza arriva arriva riscattando l’uomo dal peccato stesso.
Il nostro mondo senza Dio ( Nietzssche sosteneva nella Gaia Scienza che Dio è morto), dunque, è ugualmente comprensibile, secondo le leggi che ormai lo dominano : il potere del denaro e quello della tecnica. La perdita della speranza di salvezza rappresenta la caduta dell’entusiasmo che ha accompagnato l’uomo nella sua esistenza, relegandolo al nichilismo che oggi lo attanaglia.
A questo punto la platea cade in un silenzio preoccupato sovrastata dalle parole del Professore che rotolano come massi in una frana rovinosa.
Galimberti continua spiegando che la depressione che segna “L’era della Tecnica”, proprio quella che stiamo vivendo, non nasce dall’antico senso di colpa, ma dal senso di inadeguatezza. Ognuno di noi vive il forte imbarazzo di non essere all’altezza della conoscenza richiesta dalla Tecnica che, a sua volta, rappresenta la forma stessa del mondo.
La forte sensazione che nessuno sia più in grado di controllare la tecnica che domina la natura, sbaraglia la figura antropologica gettando l’uomo nel panico.
Neppure la figura del politico, che nel passato era rappresentata dallo statista illuminato, oggi potrebbe realmente intervenire nei complicati meccanismi che regolano tecnica e mercato ( un insieme di regole tecniche che stabilisce l’ordine mondiale).
Il politico oggi, per obiettiva incompetenza rispetto al progresso tecnologico e per naturale inclinazione al compromesso, assurge a figura di terzo ordine, proprio dietro alla tecnica ed al mercato.
Galimberti si spinge ad ipotizzare la tecnica come un reale nemico della democrazia, visto che ci pone di fronte a questioni per le quali siamo competenti.
Sembrava tangibile, tra i velluti di quello splendido teatro, il disagio per il quale ogni spettatore è piombato istantaneamente nel tunnel più buio del baratro: “ sulla basi di quale specifica conoscenza esprimo il mio voto nei confronti del nucleare? O degli OGM? Sono solo stato influenzato dalla simpatia per un politico o da una precisa fede di partito, visto che la mia preparazione in materia è disastrosa?”
Dunque, il Professore confermava che siamo vittime dell’affabulazione di un rappresentante di lista, piuttosto che competenti. Carne da macello per la facile fascinazione, perché ignoranti.
Procedeva inflessibile nell’opera di distruzione dei valori sostenendo che nell’era della Tecnica non è più possibile conservare un’etica: non esiste più morale cristiana nella ricerca scientifica , perché non conta più l’intenzione ma il risultato, come l’innocente costruzione della bomba atomica; non esiste più una morale che conservi gli enti di natura come l’ acqua, l’ aria e la biosfera che sono, per lo più, al servizio dell’Uomo; non esiste più una morale delle responsabilità, perché contano più le conseguenze che subentreranno rispetto alle intenzioni dell’Uomo, come la clonazione.
Qui torna la filosofia di Heidegger che nel 1952 sosteneva :”La cosa più inquietante non è che il mondo si trasformi in un grande apparato tecnico, ma che non siamo in grado di affrontarlo”.
I volti tesi e muti della platea sono rimasti immobili nell’attesa di una soluzione. Nessun contraddittorio a difendere la ricerca sul cancro, per esempio, o qualunque altro ambito a cui abbiamo affidato le nostre speranze di una migliore sopravvivenza.
Il pensiero del Professore era lucido, troppo forse, per opporre una seppur debole domanda di contrasto, ed un paio di deboli tentativi da parte del pubblico, sono clamorosamente falliti.
La soluzione non c’è, sostiene Galimberti.
La platea è ordinatamente uscita con la spiacevole sensazione di non avere speranze: la tecnica che domina il mondo non ha in vista l’uomo, ma solo il suo autopotenziamento. Una domanda, però, sembrava rimbalzare tra le facce mute:
“Ma il Professor avrà sempre indiscutibilmente ragione?”

giovedì 29 settembre 2011

PIU' VELOCE DELLA LUCE !


LA VELOCITA’ DEL NUETRINO E QUELLO CHE DOVREMMO IMPARARE DALLA SCIENZA


L’11 novembre 2010 dedicai un pezzo ad un’importante passo compiuto nel campo della scienza che la stampa aveva incredibilmente ignorato, dopo 40 anni di continui tentativi.
In redazione decidemmo di non inserire l’articolo nella rubrica “Scienze”, ma in home page, dove era giusto che fosse collocato. Con la deferènza che meritava.
In quel caso, si è verificato un fenomeno che Bruno Pontecorvo, brillante allievo di Enrico Fermi, aveva intuito per primo, tanto tempo prima : il neutrino ( di cui in natura esistono tre tipi) prodotto in grandi quantità da diversi fenomeni cosmici, come nelle reazioni di fusione nucleare al centro delle stelle, ha subito una trasformazione, partendo nello stato di “ muonico” dal Cern di Ginevra, ed essendo captato, due millisecondi e mezzo dopo, dal rivelatore “Opera” dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, in qualità di “tau”.
Quella “trasformazione”, che ha rappresentato una vera rivoluzione , viene chiamata tecnicamente “oscillazione”.
Oggi, la stampa dedica ampio spazio ad un nuovo esperimento perché di grande rilievo è la notizia che ne consegue: la dimostrazione che il neutrino viaggi ad una velocità superiore a quella della luce!
Cosa può mettere in discussione l’ipotesi di Einstein che è alla base della fisica moderna, e che ha dato innumerevoli predizioni verificate? . Bisognerebbe mettere in discussione un secolo di prove sulla velocità alta, come quelle eseguite negli acceleratori di particelle, nei raggi cosmici, nei fenomeni di astrofisica che hanno sempre, puntualmente dimostrato misure inferiori alla velocità della luce. Seppur di poco.
Dunque, bisognerebbe riscrivere la fisica….
Come si comporta la scienza di fronte ad un dubbio di tali proporzioni? Qual è il codice di comportamento di un gruppo
di altissima qualità scientifica, come quello che ha lavorato sul calcolo della velocità dei neutrini?
La reazione più naturale che la scienza mette in atto è quello di iniziare un lungo, attentissimo lavoro di ricerca del possibile errore di misura. Nella maggior parte degli ambiti professionali la ripetizione di un dato prodotto e la sua controprova basterebbero ad enunciare una nuova verità. Accade in politica, che non è esattamente il regno di verità e giustizia, o nel mercato, che brucia ipotesi e strategie con una velocità che, in quel caso, supera davvero quella della luce.
Accade nell’arte , dove il parere di un critico è sufficiente a stravolgere la struttura di un romanzo classico, o la bellezza di una sinfonia inserita, fino ad allora, nei cento capolavori assoluti dell’Universo.
Nella scienza, invece, no.
Il dubbio che la scoperta di proporzioni inimmaginabili possa contenere in se un errore di formulazione è insita nelle stesse persone che per anni hanno inseguito quel risultato.
Si chiama “onestà intellettuale”. Rigore. Correttezza. Pulizia di pensiero e di azione.
E per la trasparenza che guida il loro operato, affidano la ricerca dell’errore ad altri laboratori che possano garantire la stessa precisione ed il giusto distacco dall’esperienza, come il Fermilab di Chicago.. Commovente.
E’ superfluo immaginare la speranza che ognuno di quei ricercatori covi nel cuore: vivere al centro di un momento indimenticabile della scienza. Eppure lavorano alla clemente per mettere in discussione il risultato
Verrebbe da chiedere come sia stata divulgata, dunque, la notizia di una scoperta di cui non siano convinti gli stessi autori.
Non da loro, certamente, ma da chi non resiste alla spinta incontrollata di scoop giornalistico.
Loro sono intenti a frenare gli entusiasmi e pronti ad ammettere l’errore che avrebbe cambiato la storia della scienza. Hanno messo in conto anche le scuse…
Penso che dovremmo imparare tante cose dalla scienza pura, e non sono solo tecniche. Per esempio, le dimenticate regole etiche e di rigore.
In bocca al lupo, ragazzi. E grazie, comunque vada.

lunedì 29 agosto 2011

venerdì 8 luglio 2011

Portofino


Portofino

sabato 11 giugno 2011

Anto con Fabrizio Bosso e Flavio Boltro a "Note d'autore"

NOTE D’AUTORE A PIOSSASCO, IL FESTIVAL DI BOSSO




E’ iniziata la seconda edizione del Piossasco Jazz Festival. Splendida cornice, ospiti internazionali, un’attenta organizzazione.
Tre giorni di ottima musica.


Piossasco è stata una bella scoperta.
L’arrivo in piazza San Vito, incastrata tra le colline torinesi, trasmette la tenerezza e l’allegria della buona provincia.
Il cielo minaccia trambusto e le campane, inevitabilmente, iniziano a suonare a festa, come ogni paese comanda.
Truppe di volontari organizzano un efficientissimo servizio di gestione del traffico per facilitare l’arrivo degli amanti del jazz, mentre una navetta inizia, in prima serata, la preziosa spola con il Castello “ I nove merli”, sede del concerto serale.
Tutto questo per dar vita alla seconda edizione di “Note d’autore”, il festival jazz , voluto e diretto da Fabrizio Bosso, nato proprio a Piossasco.
Tre giorni di musica fantastica con ospiti di fama internazionali come Francesco Cafiso, Stefano di Battista, Flavio Boltro, Gino Castaldo, e tanti eventi dislocati tra bar e locali della zona, adibiti all’accoglienza di gruppi musicali di buonissimo livello.
Il concerto di venerdì 10 giugno, si è tenuto proprio nel Castello sorretto da una vista panoramica che mozza il fiato come una morsa alla carotide, e ossigenato dalle fronde di alberi secolari che si chiudono a cappello.
Inizia Flavio Boltro, che di strada ne ha fatta tanta da quando Maurizio Giammarco lo chiamò per portare la tromba nel suo quartetto con Roberto Gatto, Umberto Fiorentino e Furio di Castri.
Talento indiscutibile, presenta un pezzo dedicato a suo figlio, dove il consueto virtuosismo tecnico lascia il posto ad un lirismo inaspettato. Segue “onda marina”, pezzo che sembra racchiudere tutto il suo vissuto musicale, che comprende l’incontro con Steve Grossman, Cedar Walton, Billy Higgins, Clifford Jordan e tanti altri.
Lo raggiunge sul palco Francesco Cafiso, che dall’alto della sua giovane età si esibisce già in qualità di special guest .
Aveva ragione Wynton Marsalis, che lo scoprì musicalmente appena adolescente, a rapirlo dalla Sicilia per farlo debuttare nell’European Tour nel 2003; un successo indiscutibile e fulmineo che raggiunse rapidamente ogni punto del globo, fino a farlo eleggere “ambasciatore della musica jazz nel mondo”.
E’ sorprendente la maturità di questo ragazzo che non merita più di essere definito” giovane prodigio”, ma affermato artista, piuttosto.
La sua capacità d’improvvisazione è sofisticata e piena di esperienza, come se avesse già vissuto a lungo e il suo timbro, di un colore che spesso si raggiunge solo dopo un’intera vita dedita alla musica.
Erano perfetti e complementari. Un cinquantenne dall’entusiasmo musicale giovanile, intatto, quasi fresco ed un ventiduenne maturo, riflessivo, attento già alla musica degli altri, perchè la sua è già acquisita.
E’ stato un duello senza armi tra due grandi musicisti che hanno preferito non fare la guerra sul palco, ma solo una commovente esibizione. La pioggia non è bastata a dissuadere il pubblico immobile ed estasiato, protetto da grandi impermeabili gialli, dono di un’organizzazione previdente.
In un momento storico in cui il jazz non trova riparo nelle grandi città come Torino, i piccoli luoghi diventano approdi felici.
Bravo Fabrizio ( Bosso ). Un festival che merita un lungo futuro.

mercoledì 8 giugno 2011

giovedì 19 maggio 2011

Massimo Gramellini racconta la sua Patria


Massimo Gramellini presenta, al XXIV Salone del Libro di Torino, il racconto scritto insieme a Carlo Fruttero dei 150 anni dell’Italia Unita.

Capire i meccanismi che innescano il successo è , da sempre, un’operazione sociologica affascinante . E’ un pensiero che ci assale ogni volta che la folla acclama, accaldata, il suo eroe, che si tratti di un rocker o i un politico.
E’ ciò che pensavo entrando nella sala Oval del Salone del Libro di Torino, in attesa di Massimo Gramellini che avrebbe, di lì a poco, presentato il libro, scritto insieme a Carlo Fruttero, “La Patria, bene o mal”.
Cos’è che rende questo bravo giornalista un eroe delle masse?
Conosce perfettamente la tecnica della scrittura, ma la sua arte è quella di dosare perfettamente l’arguzia ironica dell’intellettuale con il linguaggio semplice dell’oratore perfetto.
La postura è eretta e la gestualità ricca, ma il linguaggio del corpo non è mai enfatico, lontano dalla sacralità del cattedratico accomodato sulla sedia gestatoria.
Cammina sul palco, grandi falcate che solcano il percorso e, se si ferma, è solo per appoggiarsi allo schienale della sua sedia, in maniche di camicia, come farebbe ogni onesto lavoratore nell’esercizio delle proprie funzioni.
La sua presenza rassicura, ma diffonde fierezza. Sa essere umile, ma sa di essere un grande.
Non ammicca, sorride schiettamente.
Non recita, ma non annoia mai.
Il suo successo, è l’insieme virtuoso di questi ingredienti.
Il libro assomiglia ai due autori.
Un volume che racchiuda 150 anni di storia d’Italia ( dal Risorgimento ad oggi ), è un’impresa ardua, una sfida alla pazienza del lettore che, nella maggior parte dei casi, ignora parte di quelle vicende che sente già troppo lontane.
Lì, scatta la raffinata capacità dei due scrittori, di rinunciare al ruolo di storici puri, per operare una selezione significativa di fatti che hanno contraddistinto i quindici decenni dell’Italia unita. Non tralasciando gli episodi che rappresentano i cardini storici di questo percorso della memoria, come la Breccia di Porta Pia, la disfatta inaspettata e imbarazzante di Caporetto o il rapimento di Aldo Moro, sono stati menzionati fatti e personaggi della cronaca rosa, dello spettacolo, dello sport, di quella tv che sconvolse la vita degli italiani.
Le memorie non potevano ignorare la vergogna del “Manifesto della razza” che, il 15 luglio 1938, segna l’inizio del pensiero fascista ignorante ( nel documento si attestava che la razza italiana poteva essere considerata ariana, non avendo subito contaminazioni nei mille anni precedenti, ossia dai Longobardi in su), ma, leggendo lo stesso libro , tutti si saranno ritrovati in quell’Italia che venne travolta dal una “Mina” vagante, e dalla sua incantevole voce, che diventa manifesto della canzone italiana.
Verrà ricordata l’arte diplomatica, a volte intrigante, di Cavour, e l’impeto battagliero e più sanguineo di quella “testa calda” di Garibaldi, ma il libro offre anche il ricordo della lotta danzata di Cassius Clay, o la vittoria di Wilma Rudolph, la bimba affetta da poliomielite che diventa la donna più veloce del mondo.
Un episodio è dedicato al romanzo “ Le confessioni di un italiano”, di Ippolito Nievo, ed un altro alla fine della Prima Repubblica, con lo scandalo di Mani Pulite.
Un libro dedicato ad ognuno di noi, che ha un ricordo confuso di una parte di quella storia che non ha vissuto e che, nel contempo, ne ha conosciuto, sofferto e amato il resto.
Gramellini e Fruttero hanno scritto questo libro, sposando il ruolo del lettore, con l’umiltà e l’ illuminazione dello scrittore consapevole del fatto che, per arrivare al cuore della gente, bisogna porsi nella sua stessa condizione.
E’ stato difficile seguire la presentazione, oltre gli applausi ripetuti e i guizzi d’entusiasmo di fans pronte a tutto.
L’unico cruccio, è la rassegnata sensazione che non verrà mai ospite nella trasmissione che conduco, nonostante una garbata promessa….

martedì 17 maggio 2011

Finalmente, pacata consapevolezza


A cosa serve serve essere italiani? La Lectio di Giovanni De Luna per spiegare la necessità di costruire una religione civile, le regole per farla nascere e gli errori storici da non ripetere.



IL XXIV Salone Internazionale del Libro, a Torino, è stato un successo, ma anche una kermesse di incontri dai toni accesi, quasi urlati, e di censure, qua e là, operate in favore del clima elettorale incombente.
Non nego di aver seguito le conferenze più “calde”, divertita dall’ironia più pungente, e sollevata dalla convinzione che le masse non siano più reattive, ma ben disposte alla riflessione dai toni un decibel più piccanti del peggior reality.
Ciò detto, però, non posso nascondere l’incanto della lectio magistralis tenuta da Giovanni De Luna sul grande interrogativo “A cosa serve essere italiani”.
Insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino e, da uomo di grande cultura, De Luna ha illustrato il percorso accidentato che gli italiani dovrebbero affrontare per costruire una “religione civile” in Italia, quella stessa che rappresentava il progetto del Risorgimento.
Un monologo dotto, sussurrato, intelligente e più efficace di una raffica di insulti o di una bordata di cattivo gusto, quello che oggi è linfa vitale del linguaggio corrente. A qualunque substrato culturale.
Il suo concetto di “religione civile” è uno spazio pubblico che legittimi lo Stato; si tratta di valori che riabilitino la sana competizione politica e lo stesso senso civico dei cittadini.
La sua accanita ricerca di una nuova religione civile ruota attorno ad un nodo mai risolto, e che troppo pesa nella storia del nostro Paese: l’incombente ruolo della Chiesa cattolica nei confronti dell’operato dello stato, e le complicazioni storiche che derivano dal collaborazionismo tra la religione e il fascismo (prima), e con la Democrazia Cristiana (dopo).
La figura del “Buon padre di famiglia” battezzata dal fascismo nel suo progetto di costruzione degli italiani, e la storica riforma agraria fortemente voluta dall’Italia di De Gasperi, per rafforzare la società contadina, rappresentano il prezzo che il paese ha pagato per la forte influenza del cattolicesimo sulla cultura.
De Luna spiega, dunque, che la continua commistione tra religione civile e dimensione religiosa in senso trascendentale, sia il grande limite della nostra società, frutto di una forte egemonia ecclesiastica .
In qualità di storico, ritiene che sia un errore pensare che senza cattolicesimo non si possa essere italiani.
L’insegnamento dello storico è quello di pensare ad una società liberale, completamente avulsa dalla Chiesa Cattolica, a differenza di quanto è accaduto finora. E’ quello di fornire al paese l’impronta della pedagogia politica, perchè cresca la disciplina che studia le teorie, i metodi e i problemi relativi all’educazione dei giovani.
De Luna si sofferma, poi, su un altro limite che ha impedito l’agevole costruzione di una religione civile: il trasformismo, che non sempre può essere disegnato come quello semplice di Scillipoti.
E’ il freno tirato da una precisa tecnica di governo che rappresenta un atto di profonda sfiducia nella capacità di governare del popolo, la diffidenza di apertura verso il basso.
Non poteva essere la tecnica fascista, che fondava la società sull’estrema ideologizzazione e sulla rigida appartenenza a ruoli sociali ben distinti e non comunicanti, a creare una religione civile. La mancanza di un dialogo con la passione degli italiani, ha segnato il suo fallimento storico.
Tanto meno la tecnica del Partito Comunista, troppo incentrata su una religione di apparato, poteva contribuire al progetto di costruzione.
Solo le forze laiche del Partito d’Azione di Pietro Calamandrei raccolsero l’intuizione dell’Illuminismo di formare una religione civile.
Ma su quali valori si può fondare oggi la religione civile, se anche il percorso della memoria condivisa della seconda Repubblica è fallita?
Qui Giovanni De Luna suggerisce una soluzione in cui crede, ma di cui intuisce la fragilità: la virtù della Mitezza, che non sia intesa come rassegnazione e sconfitta, ma come forza contrapposta all’arroganza del potere, e spesa a favore degli ideali di dialogo e tolleranza.
Il Professore ha usato un riferimento storico per descrivere lo stretto legame che può esistere tra la mitezza e la forza: i 12 professori che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo.
Per quel gesto eroico e di una forza straordinaria, usarono una frase mite che passò alla storia con l’efficacia di una lama nelle carni della dittatura: “Preferirei di no…..”
La Lectio di Giovanni De Luna nasce ispirata da una semplice domanda dei suoi allievi: “Professore, che ci guadagniamo ad essere italiani?”
Lui ha risposto con ardore e pacatezza.
Che bella lezione di vita, un racconto senza strepiti e pieno di vigore analitico…..

lunedì 16 maggio 2011

Piergiorgio Odifreddi scrive al Papa


Al XXIV Salone Internazionale del libro di Torino Odifreddi presenta “Caro Papa, tii scrivo”. Introdotto da Gianni Vattimo la disquisizione tra il Filosofo ed il Matematico diventa evento


La letteratura insegna che “l’aggettivazione “eccessiva di un’opera sia un grande rischio per l’autore, a meno che non si tratti di Victor Hugo.
I grandi giornalisti hanno speso fiumi di parole per inibire nelle giovani penne la tentazione dell’aggettivo facile, spesso superfluo.
Ma quando non si è più giovani e si scrive di Piergiorgio Odifreddi, come si fa a non cedere all’elenco?
Istrionico, impertinente, simpatico, ammiccante, intelligente, puntuale, sabaudo e irrevocabilmente ateo.
Il matematico impenitente scrive una lettera a Papa Ratzinger e, non essendo la prima senza risposta, decide di ipotizzare anche la replica che, per onestà intellettuale, s’ impegna a rendere plausibile e, insolitamente , non ironica.
La corrispondenza epistolare diventa il libro “Caro Papa, ti scrivo”,che Odifreddi presenta al Salone del Libro, introdotto da Gianni Vattimo.
La convivenza sul podio non è facile, data l’impronta caratteriale dei relatori.
Il filosofo non nega l’effetto urticante che produce su lui la matematica.
Il professore di logica ritiene che la filosofia sia una miniera inesauribile di letteratura fantastica ( come Borges sosteneva della teologia).
Giocano a non essersi simpatici, ma lo fanno divertendo la platea che era pronta ad uno scontro cortese.
Vattimo, credente anche se anti-papale, inizia la presentazione del libro soffermandosi sul limite principale che a lui appare evidente. Il linguaggio estremo dell’autore, la sua avversione incondizionata e la pretesa di fornire spiegazioni logiche , addirittura matematiche, alla fede non fa che rafforzarne il suo dogma. Il filosofo sostiene che il principio della fede è assoluto e si afferma come verità indiscutibile; diversamente non sarebbe “fede”, ma una realtà oggettiva e dimostrabile.
Il suo giudizio, addolcito da un sorriso di sfida e complicità nel contempo, è che tanto eccesso rischi di diventare enfatico, proprio come il linguaggio religioso e che lo stesso autore risulti, paradossalmente, “papale”.
Più volte tacciato di irrispettosità nei confronti della fede, Odifreddi replica con la stessa serietà con cui ha scritto il libro.
La sua curiosità nei confronti dell’opera di Papa Ratzinger “Introduzione al Cristianesimo”, considerato universalmente un capolavoro teologico, è stata tale da meritare un’analisi attenta dei principi.
La critica mossa dal Santo Padre alla Chiesa nell’ambito dei suoi insegnamenti contenuta nell’incipit dell’opera, ha suscitato l’ammirazione del lettore ateo.
Il ricorso alla scienza per dimostrare i principi religiosi, però ha destato l’orgoglio del matematico , che ha individuato in quelle argomentazioni il punto fragile delle tesi papali.
Per ognuno di questi motivi il Papa diventa l’interlocutore ideale nell’eterna disputa sulla fede.
Odifreddi conclude sintetizzando i punti fragili di ”Introduzione al Cristianesimo: Metafisica identificare Dio come “l’Essere”, Metastoria identificare Gesù come personaggio storico, presupponendo una diversa interpretazione della storia stessa; Metabiologia considerare la resurrezione di Cristo, l’inizio di una nuova specie umana.
E’ buffo pensare che un ateo irriducibile come Odifreddi, abbia passato quattro anni della sua vita in seminario. Ancor più buffo sapere che fu una scelta dettata dalla ferrea volontà di diventare Papa, piuttosto che dalla vocazione alla fede. Era il sogno di un bambino che guardava la televisione negli anni cinquanta, costretto a scegliere l’identificazione tra Mike Buongiorno o la figura di Papa Pio XII, che in video appariva in tutto il suo splendore :”…paramenti intessuti d’oro e tempestati di pietre preziose, la tiara in testa, i guanti bianche alle mani, un grosso anello al dito, issato sulla sedia gestatoria, sventagliato da flabelli di struzzo ed esibito alla folla estasiata ed acclamante, in trepida attesa della sua benedizione.”
Come poteva non rimanerne incantato?
A tratti, quando la sua mente di matematico brillante si lascia infiammare dal dibattito declinando appena verso la passione per la scienza, il suo linguaggio ( come sostiene Vattimo), assume tinte forti, quasi enfatiche. Tocca un estremo che sembra allontanarsi dalla logica e il linguaggio diventa quasi “papale”. Per un attimo i sembra affiorare quel bambino dal sogno infranto…..

sabato 14 maggio 2011

Le Penne di Micro Mega pr lìimpegno


I migliori giornalisti della storica rivista di politica e filosofia disquisiscono del valore dell’impegno e della scrittura per la difesa della democrazia e della Costituzione


Nell’ambito delle possibilità di scelta che il giornale mi ha permesso di operare tra tutti gli incontri proposti dal Salone del Libro, quello sulla scrittura e l’impegno è stato tra i primi che io abbia scelto.
Imperdibile la passerella di menti guizzanti che si sono date il passo in favore dell’impegno, le penne migliori della storica rivista – libro Micro Mega, che proprio quest’anno compie venticinque gloriosi anni.
Paolo Flores d’Arcais, Margherita Hack, Marco Travaglio, Gian Carlo Caselli, Pierfranco Pellizzetti. Per ognuno di loro sarebbe valsa la pena di sfidare l’interminabile coda di auditori assiepati all’ingresso della Sala Gialla. Per tutti loro messi insieme, valeva il sacrificio di rinunciare alla colazione rilassante del sabato, per arrivare con il netto anticipo di un’ora rispetto all’ora fissata.
La scrittura e l’impegno. Ma di chi? E rispetto a che cosa?
La scrittura è quella di Micro Mega, rivista di filosofia e politica diretta da Flores d’Arcais al servizio delle grandi battaglie civili per la difesa di una coscienza democratica. L’impegno è quello che ad ognuno viene chiesto , in Italia, per mettere in atto la rappresaglia al torpore che ci paralizza nell’era berlusconiana.
Margherita Hack irrompe con la fermezza di una forma mentis scientifica e la dolcezza di un linguaggio saggio e asciutto. La postura sembra eretta, tanto è trasparente e logico il suo parlare, anche se la schiena da tempo è curva, come le sue mani.
Parte all’attacco del sistema di Governo che lei definisce una dittatura strisciante, in cui ogni principio di democrazia viene minato nel profondo attraverso l’indebolimento della magistratura, o il capovolgimento dei poteri costituzionali tra le figure del Presidente della Repubblica e quello del Consiglio. Cita gli effetti di una discutibile legge elettorale mai cambiata e che favorisce la presenza di persone impreparate nei banchi del Parlamento, si sofferma a riflettere sulla legge che impedisce l’eutanasia.
La Hack ricorda l’importantissimo ruolo della cultura che, contribuendo a formare le coscienze, rappresenta lo strumento di combattimento a tanto degrado intellettuale, e denuncia la gravità dei tagli operati dalla destra ai finanziamenti per la ricerca, nei confronti della quale però, sempre la destra, chiede aiuti per aumentare la competitività con i paesi emergenti.
Errori e contraddizioni che secondo la scienzata nascondono la volontà di controllare la conoscenza delle masse e che mettono in evidenza le mancanze di un’opposizione che non è mai riuscita a restare unita, neppure di fronte al nemico.
Al termine del suo intervento, Flores d’Arcais propone Margherita Hack come candidato alla nomina di “ Senatore a vita”, inserendo la scienzata nell’elenco dei cinque nomi al vaglio del Presidente Napoletano. Se è vero che l’articolo 59, comma 2, della Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica può nominare” Senatori a vita” cinque persone che abbiano “illustrato la Patria per altissimi meriti in capo sociale, scientifico, artistico e letterario”, Margherita Hack ne avrebbe pieno titolo, almeno per due degli aspetti citati.
A quel punto la platea è scattata in piedi ed il suo applauso ha impedito la ripresa del dibattito per almeno cinque minuti, ed ha inumidito le palpebre stanche di questa grande donna.
Pierfranco Pellizzetti ha sottolineato la necessità che l’impegno sia nell’indignazione verso la sciatteria politica, nei confronti della distorsione delle parole affinché se ne stravolga il senso politico ( “giustizialismo “,per esempio ) e verso ogni abuso manifesto.
Gian Carlo Caselli ha spiegato che l’impegno è anche quello di non accettare più indifferenza e omissioni nel campo della giustizia perché anche questi cattivi comportamenti, come i reati, intralciano il suo cammino impedendo la fine della crisi che l’attanaglia.
Marco Travaglio ha chiuso il dibattito nel più “tenue” dei modi. Spiegando, per esempio, che l’impegno sarà anche quello di ricordare, in un futuro post-berlusconiano, i nomi di tutti coloro che sposarono, o semplicemente appoggiarono,
un governo – dittatura come quello attuale, ricordare quale stampa si è prestata al servizio del datore, quali furono le figure che contribuirono a spegnere gli entusiasmi nei confronti della democrazia.
Ha chiuso il dibattito con tono pacato e lucido, senza strepiti ma con l’efficacia del morso di un mastino. Lecca- culo, li ha chiamati i nomi di coloro che vorrà ricordare.

martedì 10 maggio 2011

mercoledì 4 maggio 2011

domenica 17 aprile 2011

L'ELOGIO DELLA DIMENTICANZA DI UMBERTO ECO


Sabato 16 aprile, penultimo giorno della Biennale Democrazia che si è tenuta a Torino, il Teatro Regio era gremito per la presenza di Umberto Eco che, con Gustavo Zagrebelsky nelle vesti di moderatore , inizia improvvisando un esilarante siparietto circa la loro collocazione : erano seduti sul palco per il semplice motivo che quelli erano gli ultimi due posti rimasti disponibili in sala.
Il pubblico era veramente variegato ma la maggior parte degli auditori non aveva più di venticinque anni, a parte la presenza di alcune scolaresche. Il dato è molto interessante perché dimostra l’indiscutibile capacità di Eco di rapire l’attenzione dei giovani e di assurgere a loro faro illuminante, senza rimaner cristallizzato nel ruolo, a volte pedante, del professore che spiega la vita da qualche pianeta di distanza.
E’ stato un trionfo!.
Il rapporto tra memoria e oblio, o meglio, l’Elogio della Dimenticanza come estrema difesa della cultura; questo è il tema con il quale il Grande Saggio ha ammaliato la platea.
In un periodo in cui ognuno di noi annega il proprio sapere in un inconsulto, eccessivo bombardamento di informazioni, molte delle quali di scarsa qualità, ognuno di noi è destinato a perdere tutto il proprio sapere.
Internet, tv, giornali e ogni contenitore mediatico che ormai allarga a dismisura il proprio format(compresi i quotidiani che hanno raggiunto formati di oltre 60 pagine), e l’eccessivo rumore prodotto dalle notizie secondarie rispetto ai problemi scottanti (anche dai quotidiani) , contribuiscono a creare un inquietante silenzio attorno a noi. Un sofisticato sistema di “censura per eccesso di rumore”, e non per sottrazione di notizia.
Non tanto per accattivarsi la simpatia della platea ( non ne ha bisogno), quanto per svegliare le masse da un torpore incalzante, Eco inizia la sua relazione partendo dall’analisi di un indiscutibile figura di riferimento del nostro tempo: le veline!
Superato il boato che in teatro ha infranto la barriera del suono, per le irrefrenabili risate che la citazione ha prodotto, Eco ha ricordato il vero significato del termine che oggi usiamo, invece, per definire” signorine danzanti di bella presenza”.
Al tempo della dittatura fascista, infatti, le veline erano fogli di carta quasi trasparente che il Ministero per la Cultura Popolare spediva , ai vari Dipartimenti, per indicare l’elenco delle azioni proibite. Dunque, le veline rappresentavano, nel periodo fascista, la “censura per sottrazione”, come solitamente viene intesa l’azione di proibire atti ritenuti gravi.
Oggi le veline, invece, esercitano una “censura per eccesso”, provocando con il loro agire ( e con le loro curve) , tanto rumore quanto basta per annullare il resto delle informazioni importanti. Quelle, appunto, che è opportuno oscurare.
L’eccesso di rumore, dunque, nega il silenzio in cui può trovare spazio l’unica forma possibile di informazione: la mormorazione.
Oltre all’informazione, però, Eco ha parlato a lungo della funzione della Memoria, come strumento indispensabile per la trasmissione e la conservazione della cultura, e della necessità che tutto il sapere si tramandi nei secoli attraverso le operazioni di decimazione, filtraggio e selezione.
Decimazione , perché, per esempio, diventa inutile per l’Uomo conservare un elenco di 10.000 libri che internet può offrirgli; sarebbe inverosimile possa leggerli tutti; impossibile che legga anche solo 10.000 titoli. Sarebbe necessario , invece, che leggesse i migliori 100, nel corso della sua vita.
Filtraggio, perché è altresì importante che la fonte che seleziona i 100 titoli, lo faccia con criteri stabiliti secondo un linguaggio comune. Ciò significa che è inutile ricevere, per ogni informazione, mille fonti diverse che non parlino tra loro linguaggi diversi ( che non vuol dire pareri discordi); ciò equivarrebbe a non avere alcuna informazione.
Selezione, perchè la cultura è anche la capacità di saper dimenticare le informazioni inutili, evitando il rischio di cadere nell’oblio e nella vertigine da eccesso.
Se un uomo potesse avere memoria di ogni frase ascoltata, di ogni titolo letto, di ogni canzone sentita, di ogni notizia pervenuta, sarebbe un uomo assolutamente stupido, privo di alcuna forma di sapere, come il personaggio di un famoso libro di Vargas Ilosa.
Restano altre possibilità di salvezza per la cultura: la “latenza” e l’arte del “recupero del dimenticato”. Ma sono argomenti che potrebbero costituire materia per una nuova conferenza.
Nessun indugio nell’oratoria di Umberto Eco.. Ascoltandolo, tornava in mente quel nesso fatale che Scalfari, il giorno prima, ricordava esistere tra il pensiero che educa il linguaggio, e l’eloquio che suscita il pensiero.
I ragazzi esultavano e, per i meno giovani, è stato un segnale commovente. Non siamo morti, dunque.
L’unica incertezza era nell’incedere, che l’uso del bastone favoriva, però. Un piccolo incidente al pollice della mano destra destra ha impedito la sottoscrizione di dediche che la folla attendeva in buon ordine. E’ stata l’unica vera delusione….

venerdì 15 aprile 2011




Nel corso di Biennale Democrazia che si è svolto a Torino, il Teatro Carignano ha ospitato Federico Rampini, Pietro Garibaldi e Ferruccio De Bortoli, in qualità di moderatore, per affrontare il tema “Democrazie senza sviluppo, sviluppo senza democrazie”.
La conferenza ha avuto inizio sulla base di un’ apprezzata analisi che il Prof. Garibaldi ha presentato circa il ruolo fondamentale che il capitale umano ( istruzione ) e la democrazia svolgono nella crescita di un paese, sottoponendo la platea ad una provocazione : la democrazia, rispetto alla crescita di un paese, può sortire due effetti, uno positivo ed uno negativo.
Il primo effetto si ottiene quanto l’esercizio della democrazia avviene con un certo “controllo”, il secondo, quello negativo, quando l’uso eccessivo dello “strumento democrazia” comporta, come estrema conseguenza, una certa “lentezza di sistema”.
Ciò si traduce nel principio che un basso livello di libertà politica aiuta lo sviluppo del paese, mentre la crescita eccessiva della stessa libertà, lo rallenta. Ma è indubbio e incontrovertibile, che solo un sistema democratico favorisca lo sviluppo di un paese.
A questo punto, inizia l’intervento di Rampini che pone un quesito iniziale : come è possibile che in un momento di così grave crisi economica del mondo occidentale un paese come la Cina, che non è esattamente una democrazia, stia ottenendo un tale tasso di crescita economica?
Come si spiega la difficoltà che Obama incontra nel costruire una rete ferroviaria ad alta velocità tra Los Angeles e San Francisco, mentre la Cina ha creato la più lunga e sofisticata esistente?
Rampini ha ricordato quanto la Cina abbia speso nella formazione del capitale umano ( il livello di preparazione degli studenti cinesi è primo al mondo, mentre quello americano è scivolato al venticinquesimo), pur restando un dato drammatico le condizioni di ignoranza dei ragazzi delle estreme campagne cinesi.
Incontrovertibile, spiega Rampini, il progresso dei paesi del “BRICS”, ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sud – Africa, le grandi economie emergenti che hanno attirato l’attenzione dei più lungimiranti finanzieri e che, nel tempo, hanno suggerito ai governanti l’idea di unire le proprie forze in incontri che, indubbiamente, producono più accordi e risultati del G20. Come si spiega tutto ciò?
Perché i BRISCS oggi rappresentano grandi esempi di democrazia, compresa l’India che, sfatando ogni remora occidentale, dal 1947 ha sviluppato, ininterrottamente, una grande cultura democratica. Settecento milioni di elettori ( su circa un miliardo di abitanti), non rinuncia a quello strumento fondamentale che è il voto, soprattutto se appartenenti alle classi più svantaggiate della popolazione. L’esistenza delle caste, a differenza di quanto erroneamente crede l’occidente, rappresenta un retaggio della cultura induista.
Anche il Brasile emerge come esempio, rappresentando l’unico caso al mondo di sviluppo economico e di diminuzione della disuguaglianza sociale nel contempo.
Ciò premesso , a parte la Russia,che non si può definire esattamente un esempio di democrazia, i paesi del BRICS hanno fondato la propria crescita sul modello democratico.
Continuando nella sua analisi, il Prof. Garibaldi ha fatto presente quando incida, nella crescita di un paese, lo stretto legame tra il reddito pro – capite dei governanti e la crescita stessa, ossia quanto pesi il rischio di “abuso di potere”.
A tale proposito, ben calzano gli esempi di colonizzazione che ci propone la storia, individuando i due modelli di riferimento: le colonie “estrattive” ( in cui i coloni occupano un paese estraendone ricchezze), e quelle “Istituzionali”( in cui i coloni si trasferiscono nei paesi occupati ricreando il sistema di istituzione e la difesa della proprietà, utili alla crescita del paese colonizzato).
Un esempio attuale per tutti: la Norvegia che ha recentemente scoperto ( venti anni fa), ingenti risorse petrolifere e che ha instaurato un sistema di investimento di una parte degli introiti nelle politiche sociali, rinunciando alla espropriazione dei capitali da parte dei governanti, Ciò ha prodotto nel paese, un “problema di credito” e non di “debito” pubblico.
Ben diversa, è stata la gestione delle risorse naturali da parte delle dittature, in cui il capitale è servito ad aumentare il livello di ricchezza dei governanti e la disuguaglianza sociale nel paese.
Cosa ancora può incidere nello sviluppo di un paese?
Banalmente…. la libertà e l’indipendenza delle magistrature..
Rinunciando al facile esempio dell’italia, Rampini ha scelto di citare gli Stati Uniti, in cui i due prossimi candidati alle elezioni ( tra cui Obama), si preparano ad affrontare quelle che saranno le campagne elettorali più finanziate della storia ( un miliardo di dollari…).
Come si può pensare che tanto capitale non arrivi dai poteri forti ( tra cui società petrolifere e finanzieri), e che in futuro tali finanziatori non chiederanno il loro risarcimento politico?
Cosa resta da fare all’Italia, alla luce di questa analisi, per auspicare una maggiore crescita?
Forse, gestire bene il capitale umano e la sua formazione, chiedere ed offrire più partecipazione, fornire corretta informazione, garantire la democrazia.
La platea ha applaudito, soprattutto alla speranza che non sia solo una splendida utopia.

Scalfari racconta l'Uomo Italiano Medio di De Sanctis


Come previsto, è stata una lezione magistrale quella che Eugenio Scalfari ha tenuto al Teatro Carignano di Torino , in occasione della Biennale della Democrazia.
Avrebbero dovuto essere presenti tutti, da destra e da sinistra, di ogni estrazione sociale e culturale, perché il ritratto che ha proposto è quello dell’Italiano Medio.
Come di consueto, la sua attenta analisi è partita da lontano, come per ricordare che la lettura del presente non può prescindere dallo studio del passato e che ogni moto, anche sociale, torna a ripetersi, con le stesse dinamiche. Purtroppo, anche attraverso gli stessi errori.
Per gli spettatori più prevenuti avrebbe dovuto trattarsi della conferenza di “un comunista”. Invece, ha rappresentato le riflessioni di un liberale ( evitando il temine più internazionale e chic di “liberal”) schierato a sinistra. Ciò ha comportato, secondo la logica della correttezza, una valutazione onesta dei limiti di ogni schieramento.
La sua analisi è partita dalla definizione che Francesco De Sanctis, deputato del primo Parlamento Italiano e Primo Ministro dell’Istruzione nel periodo post-unitario, dava del “carattere e della nervatura della persona”. De Sanctis riteneva che esistesse un nesso strettissimo tra il pensiero ed il linguaggio, e che l’uno fosse necessario ad attivare l’altro.
La struttura della lingua di una persona, dunque, rappresenta la “nervatura” ed il “carattere” stesso dell’individuo; non si può vivere senza l’esercizio continuo delle due attività ( linguaggio e pensiero). Tanto meno governare con saggezza.
La premessa è servita a spiegare il comportamento degli italiani fortemente influenzati da una cultura che, da sempre, li spinge a seguire i moti emotivi dell’esistenza, piuttosto che sospingerli verso un’attenta analisi dei fatti.
Ciò ha rappresentato, invece, il pregio del partito comunista italiano ( diverso da quello di altri paesi ), che ha improntato tutta la propria attività alla luce di una forma mentis dedita alla valutazione di ogni evento accaduto, fino all’esame del proprio fallimento. Un aspetto che ha certamente rappresentato anche un limite, ma che ha stabilito un rapporto diretto tra pensiero e linguaggio, allo scopo di raggiungere la piena consapevolezza del proprio operato. Ciò ha comportato la valutazione del “particulare”.
Questo processo è quello che ha dato vita ad un’ importante funzione svolta dal partito comunista italiano : l’educazione delle masse.
La borghesia italiana invece, secondo Scalfari, non ha mai voluto seguire una modalità così “scomoda” da valutare il dettaglio, rinunciando , di conseguenza, alla guida del Governo, affidato ad interposte figure.
E’ quanto è avvenuto in Italia, in cui il triangolo economico dei poteri forti è diventato una grande cometa che racchiude tanti poteri ( le partecipazioni intrecciate nei sistemi di banche e finanziarie, per es.), la cui scia racchiude tutti i poteri piccoli e medi delle imprese del nord-est. La figura del piccolo imprenditore non può essere interessato ad una valutazione globale del sistema, ma sarà portato a difendere il suo “particulare”.
A quel punto, non conta più chi governa, ma diventa importante compiacere il potere di volta in volta, secondo, le proprie necessità.
Ecco, dunque, che si delinea la figura dell’uomo secondo la scuola cattolica liberale di Alessandro Manzoni, e quella secondo la scuola democratica liberale, a capo di cui si trovava Giuseppe Mazzini.
Manzoni, anti –romantico come un classicista non fu, però tale, perché gettò le basi della letteratura nazional- popolare e, nel suo capolavoro letterario “I Promessi Sposi”, diede vita alla figura di Don Abbondio, che ben rappresenta “l’Uomo attento al suo particulare”.
Scalfari ripercorre le traversie di un prete dalle buone intenzioni ma asservito al potere ( Rappresentato da Don Rodrigo), al punto di venire meno alle proprie responsabilità, e scagionato da questa stessa accusa dalla società ( Il Cardinale), alla luce di un potere superiore più forte e arrogante.
Don Abbondio rappresenta, appunto, il fondamento del carattere italiano, ossia, l’Uomo Italiano Medio.
L’attenzione al dettaglio storico posta nell’analisi di Eugenio Scalfari, la visione globale del quadro politico passato e presente, la correttezza imposta al processo di valutazione hanno trasformato il suo intervento in un viaggio magico attraverso la storia. Il teatro non aveva più confini, né a destra né a sinistra, solo un grande orizzonte davanti. E lo vedevamo tutti attraverso i suoi occhi puntati “per l’alto mare aperto”.

martedì 12 aprile 2011

Puntata di Antropos su Cavour


Cavour mio eroe

Ognuno vive all’ombra di un eroe nella vita, e molti ne hanno uno anche per un momento della storia così importante come il Risorgimento.
Io identifico la forza rivoluzionaria ed illuminata di quel periodo nella figura rassicurante ed ingombrante, nel contempo, di Camille de Cavour.
Cavour passò alla storia come l’uomo politico, lo statista, il saggio più capace della scena politica italiana e la misura della sua opera è data dal fatto stesso ch’egli morì a soli 50 anni.
Fu astuto e liberale.
Astuto perché giocò sul rischio rivoluzionario temuto dalle potenze europee, per avere il via libero all’ unificazione nazionale sotto lo statuto sabaudo.
Liberale, perché trasformò il regime sabaudo in regime parlamentare.
Fu il grande precursore ed il forte sostenitore della “forma di governo”, che a lui interessava più delle conquista territoriali.
Più di chiunque altro, fui lui a sviluppare il sistema parlamentare in Italia, sopravvivendo ai numerosi tentativi del Re Vittorio Emanuele di trovare un Presidente del Consiglio di Sardegna più docile ed obbediente.
Il suo percorso fu irto di insidie che giungevano da destra, dove i conservatori lavoravano per mantenere l’ Italia divisa, e da sinistra, dove Mazzini ( la mente ) e Garibaldi ( il braccio armato), guidavano le masse verso una nazione unita, più ideale e idealistica.
Nel periodo compreso tra il 1855 ed il 1859 lavorò con tenacia e sofisticata strategia affichè scoppiasse una grande guerra europea, nella sottile speranza che ne seguissero lo smembramento dell’impero austriaco e l’unificazione d’Italia centrale e settentrionale. Nel 1859 apparve evidente che il risultato fu un fallimento e, l’anno successivo, il conte Cavour iniziò un attentissimo lavoro diplomatico, che sostituì l’intervento militare interrompendone i moti, per annettere la Sicilia e Napoli, le province conquistate da Giuseppe Garibaldi.
L’abilità di Cavour emerge tracciando nella storia, non solo i suoi successi ma, soprattutto, le difficoltà che superò, gli sbagli che fece, le incertezze per cui vacillò; tutto quello che lui definì “la parte meno bello dell’opera”.
La capacità di porre rimedio agli errori suoi e degli altri e l’arte di sfruttare a proprio vantaggio, e a quello del paese, le condizioni avverse, erano i tratti fondamentali della sua suprema abilità di statista.
Inevitabile fu il paragone con la figura di Bismark, Primo Ministro della Prussia, colui che fu l’artefice principale dell’Unificazione della Germania
Figlio di un nobile proprietario terriero, Bismark si mise in luce per le sue idee conservatrici. Leader della destra, fu contrario ad un processo di unificazione della Germania su basi demografiche.
Il nucleo centrale del pensiero politico di Cavour, invece, era racchiuso in una concezione liberale che lo portò ad avversare le teorie socialiste che cominciavano a circolare nell’Europa Centrale e, nel contempo, lo indussero a sospingere la borghesia illuminata sulle vie delle riforme, al fine di migliorare le condizioni dei contadini e degli operai e di scongiurare ogni rivolgimento sociale.
Era dotato di grande capacità dialettica; era rarissimo che disertasse anche una sola discussione alla Camera, di cui era ritenuto autorità assoluta.
Nei caffè ci si chiedeva se Bismark avrebbe mai potuto uguagliare Cavour, tanta era il suo disprezzo per le regole, in confronto al liberalismo del conte.
L’opposizione era terrorizzata dal suo ascendente personale sul Parlamento e riteneva che l sua più grande incapacità fosse quella di non saper dividere il potere, circondandosi, inoltre, di persone mediocri.
Uno dei più grandi successi che gli riconosce una parte della storia è stato quello che operò negli ultimi mesi della sua vita.
Sfidò la scomunica e dichiarò guerra al Papa. La vittoria conclusiva, e forse la più notevole del Risorgimento italiano, fu l’aver abbattuto il potere temporale dei papi, sopravvissuto intatto nel corso dei secoli.
Una parte della critica descrive Cavour come un uomo capace di far uso di qualsiasi mezzo per raggiungere il fine preposto.
Se pure questa lettura lo divertiva assai, passò, inutilmente, tutta la vita spiegando di disprezzare ogni forma di doppiezza o d’ipocrisia e che nessuno scopo, per quanto buono, possa valere un prezzo così alto.
Per sventura gravissima, morì nelle prime ore del mattino del 6 giugno 1861, non vivendo abbastanza a lungo per regalare al paese la sua abilità e la sua straordinaria intelligenza nella soluzione dei grandi problemi di quell’Italia Unita che tanto aveva contributo a creare.

sabato 5 marzo 2011

giovedì 17 febbraio 2011

NUCLEARI E RINNOVABILI – PERCHE’ SCEGLIERE


Diversificazione delle fonti sembra l’appello lanciato nel corso di un convegno organizzato da Confindustria Piemonte, con illustrazione di scenari tra utopia e realtà


Nucleare e rinnovabili : l’eterno dualismo, le soluzioni compatibili in continuo conflitto, la complementarietà che non trova pace.
Del ricorso alle fonti alternative di energia, e della costruzione di nuove centrali nucleari, si è parlato nel convegno che è stato organizzato a Torino, in palazzo Barolo, da Confindustria Piemonte, il 4 febbraio 2011.
Affrontare i problemi legati alla produzione di energia è inevitabile se si tiene conto di qualche dato: l’attuale popolazione mondiale (6,7 miliardi di persone) è cresciuta del 12% negli ultimi 10 anni ( 300.000 nati al giorno circa), mentre il fabbisogno di energia primaria è aumentata del 20% e quello di elettricità, di cui 1,6 miliardi di persone ne sono prive, del 30%.
L’energia prevista per il 2030 e di 1,8 volte quella del 2007 e assorbirà, per la sua produzione, il 44% delle risorse energetiche ( 36% nel 2007).
Questi i dati presentati da Alessandro Clerici, Presidente Onorario Wec e Coordinatore Task Force Energy Efficiency Confindustria il quale, attraverso una dettagliata presentazione, ha dimostrato che le centrali nucleari appartengono ad una tecnologia matura ed affidabile, se pur perfezionabile.
Ha spiegato che il tempo di funzionamento delle centrali è stato originariamente autorizzato fino a 40 anni e che, sulla base di periodiche verifiche di sicurezza, può essere esteso fino a 50/60 anni ( le centrali più veccie concentrate in Europa Occidentale e in Nord America). Ciò comporterebbe, secondo Clerici, un maggiore fattore di stabilità per i prezzi dell’energia elettrica e per la sicurezza degli approvvigionamenti portando, nel contempo, sostanziali contributi alla riduzione delle emissioni.
Tenuto conto di tutto ciò, l’Europa dovrà rimpiazzare oltre 300.000 MW di centrali obsolete. Come poter pensare che possano essere sostituite dai settori eolico e fotovoltaico?
Secondo il Prof. Cesare Boffa, Presidente Fire, le fonti rinnovabili sono una categoria omogenea solo ideologicamente, in realtà, sono molto diverse tra loro. Il loro sviluppo richiede conoscenze complesse( dalla termodinamica alla fluidodinamica, dalla teoria delle combustioni alla fisica dello stato solido). Sicuramente anche l’influenza dei pregiudizi e dei luoghi comuni gioca un ruolo fondamentale al loro sviluppo.
Boffa sostiene che pur trattandosi di risorse disponibili in grande quantità, sono fonti diluite, discontinue e imprevedibili e ciò rende il loro utilizzo molto complesso.
Attualmente l’impatto percentuale delle fonti rinnovabili di energia su scala mondiale sono le seguenti: idroelettrico 6,1%, biomasse 3,8%, eolico 0,19%, geotermico 0,05%, solare fotovoltaico 0,01%.
E’ indubbio che vi è ampio spazio per ottenere esponenziali progressi nel settore: la potenza installata eolica può raddoppiare ogni tre anni e quella fotovoltaica ogni due. Non bisogna dimenticare, però, che il loro sviluppo è, in buona parte, dovuto agli incentivi che, secondo l’Autorità, peseranno per oltre 7 miliardi di euro nell’anno 2020 e per 15 – 20 anni con un incremento di oltre il 25% delle bollette delle PMI.
Nel contempo, è sempre più urgente estendere una normativa ancora poco diffusa ( p. es. la regolamentazione dell’uso dei terreni da dedicare all’eolico in Italia esiste solo in Piemonte), mentre sono ancora troppo alti i costi relativi ad un’ adeguata rete di trasporto dell’energia prodotta.
E’ innegabile il fascino di grandi progetti studiati nel mondo per lo sfruttamento di fonti rinnovabili come Finngrunden in Svezia, North Sea supergrid, Masdar city ad Abu Dhabi o Desertec nella regione Mena e indiscutibile è il loro contributo nel modificare una cultura diffusa di attenzione al consumo energetico.
Come risolvere, dunque, l’eterna diatriba tra ricorso al nucleare o alle rinnovabili?. Forse solo decidendo che non sono tra loro in contrapposizione ma assolutamente e necessariamente complementari, e questo è sembrato il messaggio suggerito dalla giornata di studi organizzata da Confindustria Piemonte.
Special Guest, assente per onestà intellettuale visto che non ha ancora ricevuto l’annunciato incarico di Responsabile dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare, il Prof. Umberto Veronesi, oncologo di fama internazionale che ha, però, chiarito, in altre sedi, il suo parere nei confronti di una scelta che ancora oggi terrorizza l’opinione pubblica.
“L’idea che il nucleare possa aumentare il rischio-cancro è infondata – sostiene il Professore – Non vi è combustione, non ci sono emissioni e non c’è diffusione di cancerogeni. L’unico rischio per la salute può derivare dal rischio di incidenti agli impianti, un evento oggi assolutamente improbabile. Addirittura, l’energia nucleare può ridurre il rischio di tumore perché riduce i cancerogeni prodotti dalla combustione del petrolio”.
Le sue parole obbligano ad una riflessione in merito alla diffidenza che ancora oggi incombe sul nucleare, tenuto conto che questo garbato signore ha dedicato la sua vita alla ricerca per la tutela della salute. Diffidente è la politica, che lo vorrebbe schierato per un partito, ma è facile capire come una mente illuminata dalla luce della scienza, ignori gli stretti, angusti, claustrofobici meandri della politica….