Al
Teatro Carignano di Torino il Maestro ha messo in scena il suo
Pirandello ed è Tutto per bene
Gabriele
Lavia non è solo un bravissimo attore.
Non
è solo un regista geniale.
Non
è solo un uomo di teatro.
E'
un animale del palcoscenico che fonde la sua forza con la torba con
cui ammanta tutti i suoi spettacoli.
E'
un urlo che agghiaccia la platea, e il silenzio studiato per
stordirla fino a disorientarla.
Non
so recensire il suo spettacolo perché non è lucido il mio giudizio,
ma torto dalla pietà per quel personaggio che lui ben rappresenta
nel suo dolore imploso, e dal fremito che mi ha scosso con la sua
rivalsa, alla luce di una perfida verità.
Lavia
ha scelto una delle opere di Pirandello meno rappresentate che
l'autore definì non solo “filosofica” ma anche “passionale”.
Rappresentazione
d'un dramma, quand'esso è già finito da vent'anni, Tutto
per bene narra del benservito a
un uomo, Martino Lori, a cui si sono fatte rappresentare, a sua
insaputa, nel miglior modo possibile e proprio per bene, tutte le
parti, d'amico, di marito, di padre, di suocero, per poi avere la
dimostrazione di essere stato ingannato e, per giunta, creduto vile,
nella convinzione che fosse al corrente del tradimento subito: sua
figlia non è nata dal profondo amore che lo legava alla “sua”
defunta Silvia, ma dalla relazione clandestina di sua moglie con il
suo stimatissimo, amatissimo mentore.
Il
Maestro, nel primo atto, incarna con perfezione inquietante il passo
pesante e sconsolato di un uomo vinto e afflitto, fino a smorzare la
sua voce in un sibilo di disperazione. Non c'è speranza in
quell'incedere e lo spettatore sente forte l'oppressione di un dolore
come fosse il proprio.
Nel
secondo atto Martino Lori, proprio nel buio totale di una stanza,
apprende per la prima volta e con lo sgomento che ne può seguire,
la più crudele verità.
Proprio
come insegnava Pirandello, è il buio a rivelare le cose, a farle
vedere nella loro chiarezza e Lavia, che preferisce il buio per
rappresentare i suoi drammi e spiegarne ogni risvolto più nascosto,
ha scelto questa opera per mostrare il percorso che conduce alla
verità.
Proprio
quando Martino viene trafitto dall'involontaria confessione della sua
amata figlia, il Maestro esplode con la sua violenza irrefrenabile e
sfodera una imperdibile lezione di recitazione. Non c'è più nulla
di umano nel fragore delle urla di Martino, eppure, la sua
disperazione è straordinariamente dignitosa, commovente.
La
voce si spezza in rantoli, mentre i gesti restano immancabilmente
contenuti, come nel contrasto più efficace: il dolore non fa
smorfie...
Il
cast è di ottimo livello, le scene eleganti ed efficaci nelle loro
studiate esagerazioni, la regia è sapientemente studiata nel
dettaglio ma io non ricordo altro che la perfezione di quel contrasto, tra la
desolazione e la furia del dolore.
Puoi vedere l'intera intervista a Gabriele Lavia sul web journal www.ecograffi.it o nel canale di You tube interamente dedicato ad "Antropos".